Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
L'antiquario mendicante
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 234, p. 3
Data: 2 ottobre 1955


pag. 3




   Appariva su tutte le bocche il sorriso appena si annunciava l'arrivo del Gretta Nanai. Si faceva sull'uscio il babbo, lo zio, il gioviale Serafino con l'arruffata barba al vento, il ragazzo di bottega con la sua bianca maschera viziosa e tutti si schieravano lungo il marciapiede per contemplare il Gretta Nanai che stava appoggiato a] barroccino a guardia dei suoi tesori.
   Il Gretta era quel che si chiama a Firenze uno scarto di natura: era quasi nano e le gambe malferme e un po' bistorte lo facevano sembrare ancor più basso. Aveva una capellaia scompigliata color cimice, che gli scendeva sulla fronte e sul collo, tanto da farlo somigliare a un Giuda abortito. Gli occhi erano di un turchino forte ma spauriti e vaganti; il naso gonfio e violastro non pareva fatto per il suo viso; non posso descrivere la bocca perchè non riuscivo a guardarla da quanto era ripugnante; mi rammento però la rada vegetazione pelosa, dello stesso colore dei capelli, che gli folleggiava sul mento. Era vestito con una camicia bianca trapunta dagli strappi e un paio di pantaloni neri, decorati con toppe di tinte senza nome. I piedi scalzi sguazzavano in due stivaletti all'antica, con l'elastico, che non riuscivano a nascondere le livide unghie delle dita più grosse.
   Quei vestimenti così primitivi ed elementari non sorprendevano nessuno perchè il Gretta Nanai si faceva vedere solamente nei mesi più caldi e nessuno sapeva dove si rifugiasse il resto dell'anno. Ci s'accorgeva subito che egli doveva mangiare poco e lavarsi ancora meno. A dispetto della sua bruttezza e della sua miseria, del pari evidentissime, il Gretta aveva un atteggiamento dignitoso e quasi orgoglioso, specialmente quando offriva le inverosimili mercanzie esposte sul piano del suo barroccino.
   Si vedevano lì, allineati in bell'ordine, gli avanzi, i rifiuti, i relitti, gli spurghi di qualche sgombero disastroso, di qualche fuga precipitosa, di qualche stamberga incendiata, di una rovina improvvisa, del fallimento di un avaro povero. Un vecchio piatto sbreccato, una serratura guasta, un vasetto di ceramica col manico rotto, un libro antico al quale era stata strappata la rilegatura e insieme aveva perduto il frontespizio e l'indice, un frammento di marmo loioso probabilmente caduto da una toelette decrepita, un grosso bottone stemmato di falso argento, una fibbia di scarpetta ecclesiastica, una moneta di bronzo talmente annerita e consunta che non sarebbe stato possibile per il più linceo numismatico riconoscere da quale zecca fosse uscita, una massiccia chiave rugginosa che faceva pensare a una feudale muda, una tabacchiera senza coperchio, una cornice scortecciata e mancante di un lato, una stampa colorita goffamente a mano e, finalmente, una scodelluccia piena di pietre preziose di vero vetro.
   Non saprei dire dove il Gretta riuscisse a scovare quelle rarità per il suo antiquariato ambulante: forse all'Isolotto dove si faceva a quel tempo la cernita delle immondizie della città. Ma il disperato antiquario mostrava di tenere in gran conto quei miserabili oggetti e li curava amorosamente con la speranza di trovare un amatore degno di comprarli. Da una boccettina che tirava fuori dalla tasca dei pantaloni versava una stilla di olio torbo nella serratura guasta, spolverava con uno strofinacciolo sudicio il vaso smanicato; tentava di levare con l'unghia nera un po' della morchia che copriva la moneta e metteva via via sotto gli occhi dei possibili clienti quelle restaurate meraviglie. Dirò cosa incredibile e vera: qualcuno comprava sul serio una o l'altra di quelle reliquie degradate. Io stesso fui testimonio, più d' una volta, di tali inauditi trapassi di proprietà. Anche mio padre, una sera, fu commosso dalla muta preghiera dello stralunato volto del famelico rivendugliolo e gli comprò un piatto incrinato e lo pagò sull'istante con mezza lira, vera, d'argento. Sapevo bene che mio padre durava una gran fatica a mantenere, con i sottili guadagni, una famiglia di cinque persone e che quella spesa era doppiamente pazzesca. Il mio stupore crebbe ancora quando il babbo, allontanato che si fu il Gretta, consegnò il piatto a Serafino e gli disse di farne ciò che più gli piacesse. Riflettendo su quegli strani avvenimenti pervenni a risolvere il mistero del Gretta Nanai. Quel pezzente nano era troppo orgoglioso per adattarsi a fare il mendicante e aveva escogitato quel sistema per poter ricevere l'elemosina facendo la dignitosa figura del venditore di anticaglie. Colui che comprava una di quelle scarabattole di nessun valore sapeva benissimo di fare la carità a un affamato e questi sapeva benissimo di essere un accattone camuffato da mercante.
   Da mezzo secolo il Gretta Nanai non gira più per le strade di Firenze ma oggi, nella letteratura, si son moltiplicati i seguaci del suo sistema. Sul banchino della loro vanità mettono in mostra librettucci di versi senza poesia, romanzucoli senza fantasia, bazzoffie filosofiche senza senso, saggettini di critica senza criterio. Sono vecchiumi di nessun valore ma i petulanti nullivendoli puntano sul buon cuore, sulla buona educazione, sulla pietà e persino sulla noia dei perseguitati: difatti quei fastidiosi spacciatori di raccattaticci finiscono con l'ottenere una letterina complimentosa, una prefazione compiacente, una recensione adulatoria e magari, qualche volta, uno dei 784 premi letterari che assicurano all'Italia un nuovo Rinascimento.


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